In questi 15 anni di militanza sul campo, sebbene mi sembri ieri il giorno del mio inizio, di genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, educatori ne ho incontrati davvero tanti da farmi maturare il convincimento che ancora non sia chiaro il senso profondo della parola “educazione”. Un concetto che fatica ancora ad entrare nel senso comune, non solo della gente qualunque, ma anche di coloro che pure sono chiamati ad interagire, ad insegnare (nel senso più alto della parola), a relazionarsi con un alunno minorato della vista.
Mi tornano in mente le parole lette e rilette del professor Banchetti che sottolineava il significato etimologico della parola educazione che dal latino educere, trarre fuori dai condizionamenti, auspicava l’uso sapiente del sussidio didattico quale strumento imprescindibile, per l’educazione del fanciullo non vedente:
“Il materiale didattico, perciò si configura quale componente imprescindibile della scuola soprattutto per chi, come il minorato della vista, sia affetto da una grave limitazione sensoriale. Esso, però, non è educativo di per se stesso, ma tale si fa quando un oculato maestro lo sappia trasformare in strumento di educazione che si indirizza non a questo o a quel senso isolatamente assunti, come pretenderebbero i maldestri epigoni del deteriore montessorismo, ma alla formazione globale del soggetto educando”.
Silvestro Banchetti, Guida Ragionata a cura di M. G. Lorenzotti, Ciessedi s.r.l. Milano,1993. Oggi a 20 anni di distanza questa lezione è stata appresa? Quali sono i frutti che è possibile raccogliere?
Ahimè, purtroppo si fatica ancora a cogliere lo spirito di apertura, di ampio respiro che il termine educare implica, riducendo l’insegnamento ad un mero addestramento, che dell’educazione ritiene solo l’atto meccanicistico.
Si tende molto più ad ammaestrare, impratichire, allenare, esercitare, avviare, abituare, ma istruire, preparare, formare e insegnare cosa significano realmente? Troppo spesso accade che l’apprendimento venga ridotto ad una sequela di istruzioni che il bambino cieco si limita ad eseguire pedissequamente, senza alcuna riflessione propria, testimoniata dal fatto che a qualunque ostacolo incontrato, il bambino/l’alunno non è in grado di porvi rimedio, di elaborare autonomamente delle strategie per trovare le soluzioni.
È qui il gap principale della scuola, che sembra aver appreso che la minorazione visiva ha una sua specificità, che necessita di una didattica speciale e di strumenti specifici, ma trascura di fatto l’importanza di attivare quelle risorse deduttive indispensabili alla comprensione e alla reale autonomia dell’alunno.
La maggiore difficoltà, insidiosa quanto apparentemente innocua sta nel non aver ben chiari quali siano gli obiettivi prioritari per un minorato della vista. Quegli obiettivi che devono precedere gli obiettivi didattici specifici dei vari ordini di scuola, e ne sono il prerequisito fondante. Spesso vi è una gran confusione, vuoi per l’incapacità di programmare, vuoi per la carenza di mezzi, vuoi per la mancanza di una formazione specifica. I nostri ragazzi purtroppo, e sto parlando di ragazzi solo ciechi in questo caso, in una percentuale ancora piuttosto elevata, arrivano alle scuole superiori carichi di nozioni e privi di competenze, di quel saper fare che è la base per trovare la soluzione ai problemi. La competenza non sta nel non avere problemi, ma nel saperli risolvere, anche alla meglio, sapersi attivare per risolverli.
Spesso mi imbatto in bambini che hanno necessità di un input verbale per procedere in un’attività, non perché non siano in grado di fare, ma semplicemente perché sono in perenne attesa di istruzioni da eseguire, quasi che non fosse loro possibile agire direttamente. Sono stati anticipati, guidati e accompagnati oltre il necessario, sacrificati sull’altare dell’ascolto, senza toccare, impedendo così il naturale affinamento intellettivo che scaturisce dall’immagine mentale, dalla difficoltà, dall’ostacolo. Lo stile direttivo a cui sono sottoposti è basato prevalentemente sull’utilizzo ripetuto di imperativi, domande, comandi, richieste che indicano azioni da svolgere. Studi riportano che questo “stile comunicativo caratterizzerebbe prevalentemente il linguaggio con soggetti con deficit intellettivo, disabilità fisica, disturbi del linguaggio. Tale comunicazione tenderebbe a controllare i comportamenti e l’attenzione dei bambini, più che attuare uno scambio reciproco di comunicazione e informazioni”.
Chiara Bonfiglioli e Marina Pinelli, Disabilità visiva, ed. Erickson, 2010, pag. 33
Un guazzabuglio pedagogico non da poco!
La vista, con le sue caratteristiche di simultaneità e visione di insieme, si sa, facilita la verifica del risultato atteso. L’assenza della vista richiede più tempo, un tempo che l’educatore e purtroppo anche il genitore, spesso non sono disposti a concedere, non già per un piano malefico ai danni del bambino, ma nel caso dei genitori, per la difficoltà a gestire l’ansia e la sofferenza di vedere il proprio figlio in difficoltà. Nella scuola ciò si verifica spesso per superficialità, incompetenza e un malcelato bisogno di essere indispensabile, annullando di fatto i benefici insostituibili di quel tempo foriero di riflessioni, analisi, confronti, deduzioni, sintesi.
L’insegnante dovrebbe fornire gli elementi da elaborare, fornire se necessario dei prompt e poi attendere e osservare che cosa accade, quali processi deduttivi scaturiscono, quali soluzioni si generano.
L’insieme dinamico di stimoli e opportunità adeguate, consente alla persona di acquisire progressivamente nuove abilità, capacità e competenze attraverso le quali esprimere sempre meglio le proprie potenzialità.
Spesso si perpetra il pernicioso equivoco che il linguaggio descrittivo, necessario in alcuni contesti sia l’unico possibile, da ciò una sequela interminabile di informazioni gratis, delle quali spesso resta poco.
Accade che non vi sia alcuna differenziazione operativa nel processo di apprendimento tra la fase di acquisizione, di consolidamento e di verifica. Lo stile comunicativo, la metodologia adottata dall’insegnante è sostanzialmente la stessa, guida fisica costante e ripetuta guida verbale; raramente semplice supervisione, quasi che il ruolo di insegnante di sostegno si sublimasse nella onnipotenza e onnipresenza.
Spesso mi capita di dire agli insegnanti che incontro che il miglior insegnante di sostegno è colui che riesce a perseguire la propria inutilità.
Accade sempre più spesso che la tecnologia sia vista come la soluzione di ogni problema e da qui una valanga di proposte inadeguate, prive di un perché funzionale.
Un episodio tra tanti mi ha lasciato alquanto interdetta. Titolo di un giornale on line riporta: “Svolta epocale per i disabili della vista: gratuito e senza scopo di lucro ….è il primo ente formativo in Italia ad offrire la possibilità alle persone disabili della vista di studiare utilizzando le tradizionali dispense scolastiche, le quali saranno a loro fruibili mediante tecnologie Dast Circuit di sintesi vocale. Il servizio sarà disponibile gratuitamente presso la sede dell’istituto tal dei tali, ecc. ecc. Indagando più nel dettaglio è emerso che di fatto si tratta di un sistema di riconoscimento vocale, lettura tramite microfono e acquisizione del testo sul computer, con successiva riproduzione tramite sintesi vocale. Prima domanda che sorge spontanea: – a meno che il cieco non abbia anche gravi problemi motori agli arti superiori, perché non può usare la normale tastiera? – E ancora: – se queste fatidiche dispense ovviamente sono scritte in nero, stampate su carta, il cieco come fa a dettarle al computer? Probabilmente si tratterà di fotocopie, perché se le dispense provenissero da un file, non si capisce perché non si potrebbe passare direttamente il file all’alunno in modo da poterlo ascoltare direttamente dalla sintesi vocale o leggerle tranquillamente sul display Braille. Ma se non provengono da un file, perché il cieco possa dettarle al computer andranno scritte in Braille. Ma perché è necessario dettarle al computer se lui può leggerle in Braille su carta? Ovvio, sarà l’insegnante a leggerle e poi le farà ascoltare all’alunno. Ma perché l’insegnante dovrebbe leggerle al computer? Non può leggerle direttamente all’alunno? Ma perché tutto questo accrocco? E come questo ausilio può rientrare nella normale routine scolastica? Cos’è che sfugge per comprenderne la logica? Nulla perché non c’è una logica. Semplicemente i ciechi non vedono.
Perché tutto questo?
Un aforisma molto significativo recita: Se non si sa dove andare qualunque strada va bene (Lewis Caroll).
Dov’è l’origine del problema?
Se come insegnante non conosco il mio ruolo in relazione agli obiettivi specifici di un minorato della vista, non ho ben chiaro cosa devo perseguire. Va da sé che per giustificare la mia presenza, finisco per sostituirmi ed impedire quegli apprendimenti che poi si trasformano in competenze.
Il percorso scolastico si riduce a sterili contenuti a discapito di competenze. Si resta avviluppati intorno alla lezione, alla vacua ripetizione di cose a cui non corrispondono delle immagini mentali. Oggi la scuola fatica a programmare per un cieco, fatica a fare delle scelte didattiche e metodologiche che devono sostanziarsi in priorità, ma che restano invece sterili attività prive di un perché. Gli insegnanti faticano a trovare i perché di quello che fanno lavorando quasi a compartimenti stagni e non in maniera olistica. La normalizzazione sta nel fare le cose che fanno gli altri. Bene diremmo, ma sul come vengono fatte spesso si riflette poco. Fare come gli altri, quanto gli altri a discapito della qualità e della coerenza ha senso? C’è qualcosa che deve essere rivisto.
Nella mia esperienza di attività con alcuni bambini ciechi, i momenti più produttivi e poi emozionanti sono stati quelli in cui l’alunno è giunto alle conclusioni, mettendo insieme i dati acquisiti.
Mi torna in mente Cristian, mentre stiamo lavorando con il software Lambda e deve svolgere delle scomposizioni in fattori primi. L’algoritmo con il display si sviluppa orizzontalmente rispetto alla disposizione verticale in nero. Non è semplice! Mi ingegno per trovare una sequenza operativa che lo faciliti, ma nello stesso tempo osservo cosa fa spontaneamente. Le sorprese non tardano ad arrivare. Si organizza autonomamente in una modalità più efficiente ed economica di quella da me proposta.
Poi c’è Leonardo che frequenta la scuola primaria, è ai primi incontri per l’apprendimento dell’uso della tastiera in modalità dattilografica, al pc è collegato un display Braille. Il rumore di quegli aghetti che si sollevano e si abbassano lo incuriosisce e chiede cosa sia quella strana macchina, gli viene spiegato che in seguito, quando avrà imparato ad usare un po’ di più la tastiera userà anche il display Braille. Si accontenta della spiegazione e continua la sua esercitazione con la tastiera, non potendo fare a meno, comunque, di curiosare ogni tanto sul display Braille. Quando all’improvviso un guizzo di entusiasmo ed intelligenza gli fanno esclamare: “Ho capito, io scrivo le lettere con la tastiera e poi le trovo scritte su questa macchina…..” Ci è arrivato…. e da solo!
Quali sono le cause dei limiti educativi che impediscono di far crescere autonomamente un bambino minorato della vista?
A scuola spesso si fa fatica a prescindere dal libro di testo, dalla scheda, dalla lavagna, spesso si confondono i mezzi con gli obiettivi, frequentemente non si distinguono gli obiettivi prioritari e irrinunciabili da opzioni valide, ma secondarie. L’eterno e imperituro dilemma è: programmazione curricolare o differenziata? Cognitivamente è normale o c’è un ritardo? La diagnosi funzionale è aggiornata? Aggiornare una diagnosi di cecità assoluta, come ha ben detto una volta uno psicologo in sede di GLH varrebbe a dire che l’alunno ha recuperato la vista.
Il ritardo, le lacune e la scarsa autonomia in un alunno solo cieco sono il risultato di un mancato intervento precoce, di un percorso scolastico in cui la didattica aveva poco di tiflologico. Sul ritardo e le difficoltà in assenza di handicap aggiuntivi si interviene con una didattica e metodologia specifica, con ausili e sussidi ad hoc! La domanda da porsi é: qual è lo stile di apprendimento dell’alunno cieco, ma ancor di più di cosa ha bisogno questo specifico alunno cieco? Sembra che tutto debba essere ricondotto ai programmi. Il processo d’integrazione deve mirare a compensare questo squilibrio e a restituire il bambino a se stesso, attraverso un potenziamento dell’educazione sensoriale, motoria e immaginativa.
Per un alunno cieco vi sono obiettivi fondamentali che non sono solo l’apprendimento di un codice di lettura e scrittura, quindi le basi per la comunicazione scritta, ma anche l’educazione all’autonomia personale nella gestione del lavoro didattico (prendere appunti, redigere un diario, oltre che svolgere prove scritte e studiare le lezioni). Quel fatidico diario scritto in nero che passa dalle mani dell’insegnante a quello del genitore, il diario delle cosiddette comunicazioni, bypassando il bambino prima e purtroppo spesso anche il ragazzo dopo, è un negare la possibilità all’autonomia operativa, ridurla a una mera etichetta verbale, uno standardizzare che è sufficiente ripetere nozioni, contenuti, tralasciando completamente le competenze.
Altro importante obiettivo, è quello dell’educazione all’autonomia nelle attività quotidiane a casa, come a scuola (sapersi muovere autonomamente nell’aula, saper andare ai servizi), l’acquisizione di mobilità e orientamento all’interno e poi all’esterno degli spazi frequentati, l’inserimento e la partecipazione comunitaria scolastica, lo sviluppo e il benessere emotivo-relazionale.
Si assiste spesso al moltiplicarsi di richieste per l’assistente alla comunicazione, l’assistente materiale, l’educatore senza alcun distinguo tra ordine di scuola e compromissione dell’alunno. Nella scuola primaria o con un alunno pluriminorato può avere un senso, l’affiancamento finalizzato di un educatore o l’integrazione delle ore, ma quando questa prassi si presenta in presenza di un alunno che non ha minorazioni aggiuntive o che si iscrive al liceo non è più accettabile.
Famiglia e scuola devono credere nelle potenzialità e possibilità dell’alunno cieco.
Fino a questo momento ho citato una sola volta i genitori, perché LA FAMIGLIA È! Punto.
Giudicare la famiglia è troppo facile. Le dinamiche familiari, l’elaborazione del lutto, le risorse emotive sono differenti da caso a caso e hanno il loro peso, ma è quello che accade poi in qualunque famiglia, per cui la famiglia non va giudicata a prescindere. Sono sotto una lente di ingrandimento continuamente. I genitori di un bambino non vedente, sono spesso soli, disorientati, spaventati da un compito così gravoso come quello di educare un figlio cieco. Fatta salva questa premessa, mi sento di invitare i genitori ad una riflessione comune, a credere di più nelle potenzialità dei loro figli, a non fare della delega educativa uno strumento di rivalsa. A non preoccuparsi solo a che non si veda che il proprio figlio è cieco, e quindi a correggere la postura, a raddrizzargli le spalle, e a sollevargli il capo, a non trasmettergli solo l’ansia dell’incolumità fisica, ma a spiegargli i perché della realtà, attraverso la condivisione che sebbene non passi attraverso un’intesa visiva, passa attraverso il contatto emotivo e fisico. A non cadere nella trappola: più ore di sostegno, educatore anche a scuola = migliore qualità di integrazione scolastica. Lo so gli scarsi servizi fanno temere i genitori, ma la qualità dell’integrazione scolastica non è direttamente proporzionale alle ore di sostegno.
Fa male vedere il proprio figlio che non gioca come gli altri, che non scopre come gli altri, che ha bisogno di più tempo per fare una cosa e spesso anche di più tentativi per riuscirci, ma se i bambini arriveranno a scuola con un patrimonio di esperienze più ricco, più resistenti alla frustrazione, e soprattutto più curiosi, avranno la strada in discesa. Chi ha difficoltà di apprendimento, in assenza di altre problematiche, è colui che ha povertà di esperienze.
I genitori sono chiamati a collaborare. L’autonomia non si riceve in dono, né si può comprare, ma si conquista; ci si appropria di essa solamente se gli altri sono disposti a lasciare lo spazio per crescere. È un processo di colonizzazione progressiva.
Corrado Bortolin “Orientamento, mobilitaL8; e autonomia personale nell’ambito dell’etaL8; evolutiva” (I unitaL8;) in Corso on-line per genitori di bambini minorati della vista, 2004
Imparare a mangiare da solo, vestirsi, scegliere cosa fare nel proprio tempo libero, ecc. non si impara a scuola, ma a casa.
È possibile oggi con i mezzi a disposizione, con le leggi in vigore, fare diversamente?
In qualche modo si deve! Altrimenti si rischia di bruciare delle generazioni in attesa dell’optimum.
Alla scuola si chiede maggiore consapevolezza del proprio ruolo. In giro c’è troppa approssimazione e improvvisazione. Troppo spesso i genitori sono costretti a sentire espressioni del tipo: “Io non ho mai seguito un alunno minorato della vista, ditemi voi cosa fare, voi che conoscete meglio il bambino”. È di fronte a frasi come questa che i genitori sono lasciati ancora una volta soli! Essi devono fare i genitori. Quando i ruoli si mischiano, nella mia esperienza, quello che ne viene fuori raramente è positivo.
Allora riflettiamo su alcuni aspetti. Si parla tanto di formazione, la metodologia specifica assume un ruolo fondamentale. Eppure di corsi se ne fanno, ma dov’è il problema? Forse trasportiamo l’acqua con il colapasta! Che vuol dire? Formiamo e disperdiamo risorse, formiamo e disperdiamo! Ogni anno sull’alunno c’è un insegnante diverso e si deve ricominciare tutto da capo. Ha senso tutto ciò? Una professionalità specifica scaturisce anche dall’ESPERIENZA non solo dalla formazione.
Tra i vari ordini di scuola vi è una grossa discrepanza formativa soprattutto tra la scuola primaria e la scuola secondaria. Se l’alunno non vedente arriva alla scuola media con competenze allineate a quelle dei vedenti, allora in qualche modo si procede, ma quando invece giunge con delle lacune, senza ancora una consolidata autodeterminazione operativa, con delle abilità non ancora ben strutturate, allora l’alunno si brucia, diventa “ritardato”.
Il sostegno sembra essere territorio di facile conquista… e che ci vuole? Bisognerebbe stringere le maglie del reclutamento, non è per tutti! Perché per fare il manager la selezione è durissima e, quando si tratta di educare, chiunque può farlo? E perché nessuno poi è responsabile dei guasti che si producono? Lo so: è utopia? Intanto va detto!
Oggi c’è un altro vuoto che bisogna affrontare, che è quello del plurihandicap a scuola.
Bene, abbiamo inserito il bambino insieme agli altri, ma urge una formazione mirata. Con il minorato della vista pluriminorato non si può intervenire come con un cieco e basta e nemmeno come con un disabile psico-fisico. Per la scuola questo è un territorio ancora vergine. Esistono degli obiettivi possibili di qualità di integrazione scolastica che possono essere perseguiti per questi bambini/ragazzi, ma è necessario prevedere una formazione più strutturata su queste tematiche. Spesso si tratta di casi complicati, dove la comunicazione diventa fondamentale e dove la parola non può assolvere a questo ruolo.
Oggi nella scuola questi alunni ci sono e non possiamo solo affidarli ai corridoi con le conseguenze dei problemi comportamentali che poi ne conseguono. I bisogni della scala di Maslow restano fondamentali anche in questi casi. Nelle statistiche, la pluriminorazione si attesta tra il 40 e il 50% della popolazione scolastica dei minorati della vista e non può più essere ignorata.
Per concludere: quali sono le prospettive? Lasciando ai tavoli tecnici la responsabilità di promuovere presso le opportune sedi istituzionali proposte concrete, valide, funzionali e competenti come quella promossa dalla Fand e dalla Fish, io voglio fare appello alle risorse e responsabilità di ciascuno nel proprio ambito di competenza, degli operatori della scuola e dell’extrascuola. Non possiamo permetterci di bruciare delle generazioni di alunni minorati della vista in attesa della legge perfetta, dei fondi adeguati, della formazione dovuta. Ciascuno di noi deve far ricorso al più profondo senso morale, etico e professionale per rispondere a questi bisogni: nessuno può sentirsi giustificato e venir meno al proprio dovere se l’università che ha frequentato non l’ha formato adeguatamente, gli ha fornito una semplice infarinatura su argomenti tiflologici o sul Braille. Ho incontrato molti insegnanti di sostegno e curricolari che si sono formati a proprie spese perché nella propria classe era inserito un alunno minorato della vista. Ho incontrato alcuni Dirigenti che pur in assenza di risorse si sono attivati attraverso reti di scuole, coinvolgendo l’associazione, il Centro di Consulenza Tiflodidattica, perché l’ausilio in qualche modo doveva essere recuperato anche attraverso il prestito o lo scambio e questa determinazione poi ha prodotto i suoi risultati. È un ambito in cui non si può lavorare con il “ mi compete o non mi compete” è un ambito in cui si fa e solo dopo aver fatto tutto il possibile, il nostro meglio, possiamo ritenerci soddisfatti.
Stiamo parlando di individui non di pratiche di lavoro!